FOTORACCONTO PAKISTAN LUGLIO 2022
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GIORNO 1
Parto il giorno in cui viene indetto uno sciopero negli aeroporti, nessun volo riesce a partire nella fascia oraria indicata: i voli low cost vengono direttamente cancellati, i voli delle compagnie di bandiera vengono rinviati al temine dello sciopero, e il mio volo è il primo a ripartire. Morale: avevo un lay over piuttosto lungo e, anche se in ritardo rispetto all'orario di arrivo a Dubai previsto, sono perfettamente in tempo per prendere il volo per Lahore. Meno male.
A Lahore, capitale culturale del Pakistan, per prima cosa visito la Moschea Baadshahi (Moschea Imperiale), capolavoro dell'arte moghul, in passato utilizzata come stalla durante la dominazione Sikh.
Immancabile la visita al Forte di Lahore, patrimonio dell'Umanità per l'UNESCO, di cui la cosa che più mi rimane impressa è la gigantesca "scala degli elefanti", concepita appositamente per permettere ai pachidermi - utilizzati come mezzo di trasporto - di salire fino ai quartieri reali.
La Città Vecchia di Lahore è un dedalo di affascinanti stradine strette, nelle quali, si trova di tutto: case, negozi ma soprattutto uomini, fra questi anche dei musicisti intenti a suonare non si sa bene per chi, generalmente sorridenti e sempre disponibili a lasciarsi fotografare. C'è anche un vecchietto che tiene in mano una rete all'interno della quale, sopra un piatto di metallo, vi sono alcuni uccellini, paiono passerotti. La guida mi spiega che è tradizione dare qualche spicciolo all'uomo perché li liberi, così che possano portare verso il cielo i propri desideri. Ovviamente gli animali sono addestrati e presto faranno ritorno dal loro padrone e al cibo che fornisce loro.
Una delle visite classiche la compio ai giardini di Shalimar, patrimonio dell'umanità per l'UNESCO. Considerati fra i più complessi tra tutti quelli realizzati dai Moghul, furono costruiti nel 1641 dall’imperatore Shah Jahan (il creatore del Taj Mahal), con la forma di un rettangolo allineato lungo l’asse nord-sud, che misura 658 metri per 258, articolato in tre livelli di terrazze, ciascuno dei quali ha un’altezza di circa 5 metri superiore al precedente. Questa disposizione ha consentito la realizzazione di un complesso sistema di oltre 400 fontane e di ben cinque spettacolari cascate, comparabile per bellezza ai giardini del Rinascimento italiano, come Villa d’Este a Tivoli, a loro volta ispirati, attraverso gli esempi spagnoli, al modello orientale del «chahar bagh».
Nel tardo pomeriggio assisto a un evento che surreale che inseguo da tempo, la surreale cerimonia di ammainabandiera che si svolge ogni sera, poco prima del tramonto, a Wagah, al confine tra India e Pakistan, due paesi perennemente in guerra, a volte apertamente dichiarata altre volte in modo più strisciante, da quando nel 1947 nacquero come stati indipendenti dalla ripartizione dell’Impero Britannico Indiano. Wagah si trova sulla Gran Trunk Road, un’antichissima strada che da due millenni unisce le aree orientali a quelle occidentali del vasto subcontinente indiano. È stata per decenni l’unica via ufficialmente aperta tra i due paesi, fino a quando nel 1999 non ne è stata aperta un’altra in Kashmir, il territorio conteso tra le due nazioni che è da sempre il motivo principale delle loro dispute armate. Ogni sera l’ammainabandiera è preceduto da una specie di show messo in scena dai soldati delle due opposte fazioni: i Rangers del Pakistan e le Forze di Sicurezza di Confine dell’India. I soldati, dotati di vistosi copricapi che ne enfatizzano le movenze, si sfidano con gesti che trasudano tracotanza e spavalderia, con passi estremamente pronunciati, veloci scatti della testa e mostrando i muscoli al nemico. Alla scena assiste ogni volta una platea di diverse centinaia di spettatori (incitati da capi claque) e turisti, che assistono con la stessa partecipazione che ci si aspetterebbe per una partita della propria Nazionale, facedo un tifo sfegatato e reagendo ai gesti più provocatori. In teoria il tutto dovrebbe rappresentare l’amicizia e lo spirito di collaborazione fra i due paesi – la cerimonia si conclude con una brusca stretta di mano fra due soldati delle diverse forze e con le bandiere ammainate perfettamente all’unisono – ma nel tempo si è esaltata la componente di sfida che inequivocabilmente anima questa strana cerimonia. In passato l'esibito senso di provocazione insito in questa cerimonia è stato ufficialmente criticato dal generale di Pakistan Rangers che auspicava una riduzione della teatralità delle movenze. Ciò nonostante, il 2 novembre 2014, un teenager si è fatto esplodere sul lato pakistano mentre indossava 5 kg di esplosivo, causando la morte di 60 persone e il ferimento di oltre 100. A “giocare alla guerra” poi finisce che qualcuno non capisce che non è un gioco. L'evento a cui assisto io è per fortuna molto tranquillo, la gente (anche se direi un po' più numerosa sul lato indiano) sorride e sventola bandierine, forse anche per trovare un minimo di refrigerio ai circa 38° di un afosissimo lunedì estivo, mentre intona all'unisono "Allah akhbar"!, una frase che non mi sarei mai aspetto in un'atmosfera da festa di paese.
GIORNO 2
Sveglia all'alba per assistere all'allenamento mattutino dei lottatori di kushti, un'altra delle cose che da tempo avevo messo nel mio mirino di viaggiatore e fotografo. Il kushti, o pehlwani, è la lotta tradizionale indiana. Sviluppatasi durante l'Impero Moghul (1526- 1857), si rifà all'antica malla-yuddha, la violenta lotta - che ammette pugni, calci, morsi e soffocamenti - sorta nell'Asia Meridionale circa 5000 anni fa e in alcune zone dell'India ancora praticata. Il kushti non ammette i colpi violenti e assomiglia molto alla lotta libera, al punto che molti lottatori indiani cresciuti praticando il kushti, hanno poi avuto successo nella gare di lotta alle Olimpiadi. Caratteristica del kushti è l'akhara, la superficie su cui si combatte: nonostante il progresso dei materiali che ha portato tutte le altre discipline di lotta a svolgersi su tappeti di gomma, il kushti si pratica ancora sulla terra. Prima dell'incontro la superficie viene ripulita da eventuali sassi, poi viene cosparsa di yogurt, burro, curcuma e ocra, che dona alla terra il caratteristico colore rossastro. Ogni due o tre giorni il campo viene spruzzato con acqua, in modo da avere la giusta consistenza, non troppo dura da causare infortuni ma nemmeno troppo soffice da non permettere ai lottatori di fare presa sul terreno. La durata dell'incontro, a cui sovrintendono tre arbitri, non è fissa, viene pattuita tra i combattenti prima delle ostilità e mediamente è di mezz'ora, eventualmente prolungabile per volontà dei contendenti. Come in altre forme di lotta, la vittoria va a chi riesce mettere a terra l'avversario facendogli toccare contemporaneamente il suolo con le spalle e le anche. Come per tutte le arti marziali, anche il kushti ha tecniche e mosse codificate. Molto importanti nella preparazione di un lottatore sono l'allenamento e la dieta. L'allenamento viene iniziato molto presto, verso le 3:00 di mattina, con migliaia di esercizi fisici - eseguiti anche con attrezzi specifici come clave di legno o cerchi di pietra da mettere al collo - a cui si aggiungono corsa, nuoto e massaggi. Seguono ore di combattimenti, poi un massaggio a base di olio prima del riposo. Nel pomeriggio altri combattimenti e poi a letto presto, verso le 8:00. La dieta segue i principi della Samkhya, l'antica filosofia hindu che divide il cibo, come tutto l'universo, in tre categorie: sattva (calmo/buono), rajas (attivo/passionale) e tamas (spento/letargico). Poiché la lotta è un'attività di tipo rajas, va contrastata con alimenti sattva, i principali dei quali sono il latte, il ghee (burro chiarificato) e le mandorle. Consigliate anche vari tipi di frutta e verdura, ma non la carne, nonostante qualche lottatore moderno la inserisca nella sua dieta. Alcool e tabacco sono fortemente sconsigliati, così come il sesso, al punto che i praticanti vengono considerati quasi alla stregua di monaci combattenti. La palestra all'aperto che visito è piena di giovani, a dimostrazione che la disciplina è ancora molto praticata. Sono molto ben disposti a farsi fotografare e si raccomandano di mandargli le foto in seguito, cosa che ovviamente farò al mio ritorno.
Segue il lungo trasferimento a Peshawar su un pullman fighissimo: aria condizionata, sedili reclinabili con ben 3 diversi tipi di massaggio (anche se mi parevano tutti uguali), perfino uno steward che distribuisce panino e dolcetto. A noi della business class ha offerto Coca-cola e Sprite, in economy aranciata e acqua, quando si dice il potere dei soldi... Tocco di classe finale, una spruzzata di deodorante per ambiente. Speso 12€ circa per 6 ore di viaggio, da un lato all'altro del paese.
Peshawar è una vera chicca, e non solo perché nel mio immaginario è sempre stata la città per eccellenza dei contrabbandieri e dei traffici loschi. Qui si parla in Pashtun, gli uomini portano in testa il pakhol e almeno la metà delle poche donne che si vedono in giro portano il burqa (qui generalmente di colore beige, non azzurro o verde come nel vicino Afghanistan, che dista appena circa 20 km). Girare per le strade di Peshawar è come tuffarsi in un film d'epoca, dove tutto sembra avere un sapore di antico Oriente non ancora toccato dal progresso. Le strade pullulano di vita, i negozi arrivano praticamente in strada e i negozianti si dividono tra quelli che lavorano e riparano e i tanti che sono, in barba all'etiquette occidentale, non si fanno problemi a sdraiarsi sul pavimento, per farsi un pisolino o anche solo per fare due chiacchiere al telefono. Praticamente tutto il centro, saltuariamente costellato da magnifici edifici in legno intagliato spesso fatiscenti, è un enorme bazar.
Visito la grande e antica (1670) Moschea Mohabbat Khan dalla facciata in marmo bianco e l'iconica Torre dell’orologio di Sir Cunningham, alta 26 metri e nota anche come Ghanta Ghar, costruita nel 1900 in onore dell’ex governatore britannico. La zona brulica di uomini, poche le donne e quasi sempre coperte da un burqa e sedute per terra, nemmeno degne di poter utilizzare uno sgabello.
La mia guida locale (che è un rompiscatole di dimensioni incommensurabili) ha anche un negozio di antiquariato e, sfinito dalle sue insistenze, finisco per comprare un interessante copricapo a punta antico dopo una sfinente trattativa. Meglio tornare a gironzolare nella città vecchia, dove mi imbatto in un frequentato gelataio: qui il gelato viene preparato facendo congelare del latte che poi viene insaporito mettendoci del sale (non proprio pulito, se devo dire la verità) che normalmente viene servito in un piatto assieme a delle noodles. Io invece lo mangio senza questo improbabile "contorno", tra gli sguardi un po' stupiti degli altri avventori.
Rientro in tuk tuk, più che per la stanchezza per pigliare un po' d'aria, Peshawar non sarà come Lahore ma è un bel caldo pure qua (37°), per fortuna fra un paio di giorni salirò di altitudine e dovrei trovare un clima più gradevole. Ieri avevo incontrato due coppie slovacche al confine di Wagha, oggi nessun occidentale, sarà per questo che ricevo in media una decina di richieste di selfie al giorno da perfetti sconosciuti al giorno. Stamattina uno mi ha pure voluto filmare mentre pronunciavo una frase su sua richiesta, che mi ha detto essere "Viva Lahore" ma potrebbe essere stato qualsiasi altra cosa.
Scrivo queste sconclusionate righe mentre sto aspettando la cena: mi hanno detto che oggi è un giorno in cui non si dovrebbe mangiare carne ma solo pollo (che non pensavo fosse una verdura...) ma il "ristorante" di strada che ho scelto ha solo montone. Pazienza, anche perché mi ha detto che per cucinare il mio piatto ci vogliono 45 minuti ma mentre scrivo scatta un black-out in tutta la strada, e dire che avevo scelto il ristorante soprattutto per stare sotto il ventilatore... Quando finalmente arriva il piatto ordinato noto che il foglio della comanda è proprio dentro al piatto, unto e bisunto come la carne che mi viene servita: sicuramente il cuoco così non si sbaglia!
GIORNO 3
Se nelle lunghe tratte ormai i bus moderni hanno soppiantato quelli tradizionali, nelle campagne sono ancora popolari i vecchi coloratissimi bus, ma anche gli altrettanto variopinti camion. In una stazione di bus mi imbatto ina una formidabile serie di questi bus e non posso fare a meno di salirci sopra. In seguito mi faccio portare presso una delle officine specializzate sia nella riparazione dei mezzi che nella loro decorazione, un abbellimento per il quale i proprietari dei veicoli - spesso lontani da casa per mesi - sono disposti a spendere qualche migliaio di euro. La consuetudine di decorare bus e camion è particolarmente comune in Pakistan e in India ed è stato stimato che questa attività dia lavoro a circa 250.000 persone solo nel paese che sto visitando. L'idea di fondo risale all'epoca della civiltà della valle dell'Indo, quando era consuetudine decorare i mezzi di trasporto. In passato le barche tradizionali Sindhi in legno erano splendidamente intagliate con disegni e motivi vistosi, con piccoli specchi applicati, avorio intarsiato, campane di metallo, perline, conchiglie e piastre di metallo. I Sindhi amano anche decorare i loro animali domestici, ad esempio il pelo dei cammelli viene tagliato producendo disegni floreali e geometrici, e applicando henné e tintura nera. Negli anni '30 la General Motors introdusse per la prima volta i camion e la gente del posto iniziò a decorarli, anche se cominciò a diventare una pratica largamente diffusa solo negli anni '50 per merito dell'artista Hajji Hussain. Le decorazioni non sono realizzate solo tramite la pittura ma anche con l'aggiunta di molte decorazioni aggiuntive come catene e ciondoli, al punto che le truppe americane in servizio in Afghanistan soprannominarono questi mezzi "jingle trucks" a causa del suono tintinnante che i camion producono. Soprattutto i bus sembrano fare gara a chi è più decorato, come se la gente scegliesse di salirvi in base alle decorazioni che li costellano, non solo esternamente ma anche internamente. Le decorazioni nei mezzi pakistani risentono della cultura musulmana e spesse riportano calligrafie islamiche e iconografie di origine religiosa.
Ci addentriamo nella campagna circostante per ammirare il ponte Choa Gujar, un bel esempio di architettura del periodo Mughal, lungo 75 m e largo 5,80 m, costruito con mattoni posati su malta di calce. Il ponte ha cinque pilastri cilindrici alti 8 m sormontati da cupole a forma di melone, intonacate con malta di calce. Sotto il ponte 12 passaggi ad arco, che consentono lo scorrere delle acque del fiume Bara, dove qualcuno sta lavando una moto. Ai bordi della strada, vi sono alcune carcasse di bovini in via di putrefazione, in certe cose il Pakistan ricorda la disperata umanità della vicina India.
Di tutt'altro genere ma non meno interessante la visita successiva, presso una fabbrica di armi nella periferia di Peshawar (che ufficialmente non si potrebbe visitare senza permessi). In realtà il mio sogno sarebbe stato quello di visitare la non distante cittadina di Adam Khel Tehsil, storico luogo di produzione di armi da fuoco con più di 200 fabbriche dove fucili e pistole (negli ultimi anni soprattutto quest'ultime perché, essendo più piccole, è più facile rispettare la legge che vieta di mostrare le armi in pubblico) copie di quelli occidentali venivano forgiati a mano da abilissimi artigiani, al punto che solo armaioli esperti li sapevano distinguere da quelli ufficiali. Poiché era diventata una destinazione che attirava turisti avventurosi, la città è stata dapprima chiusa agli stranieri (per evitare incidenti) e ultimamente il governo ha deciso di spostare tutte le vecchie fabbriche in nuovi capannoni, limitando le licenze. La fabbrica che visitiamo, anche se nella propria show room mostra dei mitra, pare sia specializzata nelle repliche delle pistole Beretta.
Completa la giornata la visita presso una bella "haveli" (abitazione di architettura moghul con cortile interno) ancora parzialmente abitata e una visita presso un commerciante di stoffe antiche, dove trovo uno stupendo abito islamico finemente ricamato che non poso fare a meno di acquistare.
GIORNO 4
Non sopporto più la guida che avevo assoldato per Peshawar (per contenere i costi ne avevo rintracciata una diversa per ogni città, in modo da non dover pagare le trasferte in città diverse dalle loro), sempre pronto a chiedere soldi e cambiare idea e versione per due spicci in più, al punto che decido di rinunciare ai suoi servizi per l'ultima giornata a Peshawar, nonostante le sue insistenze. Quanno ce vò ce vò.
Ma non ne risento, anzi, come spesso succede quando si girovaga a caso, finisco per scoprire cose interessanti che raramente ai turisti vengono mostrate, non per cattiveria, ma più probabilmente perché ritenute non degne di nota dalle guide locali che non sempre sanno intercettare i gusti dei visitatori. Mentre cerco il Peshawar Museum m'imbatto nello strepitoso mercato dei pezzi di ricambio per auto, una specie di girone dantesco super fotogenico (e super caldo) in cui uomini dalle mani sporche di olio per auto commerciano qualsiasi cosa possa servire per riparare un'auto o una motocicletta. Mi sento come un pisello nel baccello.
Poi visito il Peshawar Museum, che si rivela perfino superiore alle mie non basse aspettative. La cosa è comprensibile perché contiene le migliori collezioni al mondo di arte Gandhara (civilizzazione tra il V sec. aC e il VII dC con chiare influenze ellenistiche - qui nel 300 aC passò Alessandro Magno) e di arte Kalash, una minoranza etnica animista che visiterò nei prossimi giorni. In seguito, gironzolando, trovo un artigiano che produce uno interessante strumento a corde locale e mi fermo un po' ad ascoltare e a vedere la gente che passa dal negozio/laboratorio.
Poi il cielo s'incupisce e decido saggiamente di rientrare in albergo, mossa avveduta perché da lì a poco un violento acquazzone allaga le strade e vedo i locali spostarsi tranquillamente con l'acqua che in certi punti arriva a metà polpaccio.
Dopo cena prendo un bus notturno per Chitral, partenza alle 21:00 e arrivo previsto verso le 6:00 del mattino seguente. Vorrei provare a dormire ma dapprima il bimbo dietro di me ascolta ininterrottamente una versione pakistana de "Nella vecchia fattoria", poi quando finalmente smette quello seduto al mio fianco comincia una conversazione telefonica di mezz'ora abbondante. Quando anche lui ci dà un taglio, mi addormento ma alle 23:20 mi svegliano perché c'è un controllo dei documenti (di tutti) ma solo io (unico occidentale sul bus) devo scendere per andare nella cabina dei poliziotti, i quali vogliono sapere quanti giorni resterò a Chitral perché devono scriverlo su un registro, che poi mi fanno firmare. Chiedo quanti altri controlli del genere ci saranno, l'aiutante dell'autista dice uno, perché è un periodo calmo. Provo a riprendere il sonno interrotto ma alle 23:40 il bus si ferma e tutti dobbiamo scendere per una sosta di mezz'ora per la "cena". Il resto del viaggio è stato più tranquillo, non mi hanno nemmeno svegliato per il secondo controllo, forse perché fingevo di dormire...